Genetica di Popolazione

Paleontologia

Processi di Fosilizzazione

Nannai


Dopo che sono stati definitivamente sepolti sotto una coltre più o meno spessa di sedimento, i resti degli organismi che hanno superato tutte le peripezie della necrolisi e dei rimanenti processi biostratinomici non sono altro che particelle sedimentarie fra le altre particelle sedimentarie e come tali saranno soggetti a tutti i processi diagenetica che a poco a poco  trasformeranno i sedimenti che li inglobano in rocce sedimentarie
Da questo momento tutte le trasformazioni subite dai resti degli organismi saranno solo dei casi particolari delle modificazioni subite dai sedimenti che li inglobano. Verranno quindi esaminati i vari processi diagenetica con particolare attenzione a quelli che possono produrre trasformazioni significative sui resti organici ed organogeni.
Il procedere della sedimentazione sovrappone continuamente nuovi sedimenti a quelli appena deposti e fa sì che un determinato resto venga ad essere sepolto sempre più profondamente. In questa situazione i resti organici ed organogeni si trovano ad essere sottoposti ad un carico litostatico ed idrostatico progressivamente crescente, si trovano immersi continuamente nel liquido interstiziale che impregna i sedimenti e vengono progressivamente sottoposti ad una temperatura sempre più elevata.
L’aumento del carico litostatico provoca un costipamento dei sedimenti, più o meno marcato a seconda della granulometria e della composizione dei materiali presenti. I fanghi costituiti da materia organica arrivano a perdere fino al 90% del loro spessore iniziale. I sedimenti detritici di composizione minerale si costipano sempre meno all’aumentare delle dimensioni dei clasti: si passa da valori di poco inferiori al 90%  per le argille più fini, a valori via via più ridotti per i silt e le sabbie fini, fino ad arrivare al 10% o poco più per le sabbie grossolane e le ghiaie ben addensate.

Fossilizzazione della materia organica

Abbiamo visto che la putrefazione è quell’insieme di processi, in parte chimici e prevalentemente biochimici, che porta in ambiente ossidante, alla completa distruzione della materia organica. Essendo legata all’azione di organismi viventi, la putrefazione può svilupparsi solo in presenza di acqua. La presenza di ossigeno è necessaria per permettere lo sviluppo dei batteri aerobici; in assenza di ossigeno si svilupperebbero solo quelli anaerobici e si avrebbe quindi una fermentazione anaerobica che non porterebbe alla distruzione della materia organica ma ad una sua profonda trasformazione con conservazione del solo carbonio (carbonificazione). Per una conservazione tridimensionale dei tessuti organici sono innanzitutto necessari una limitata decomposizione della materia organica ed una “mineralizzazione” precoce.
I diversi metodi per rallentare la distruzione della materia organica hanno successo solo per  più o meno lunghi ma comunque limitati in quanto riescono solo a frenare la componente biochimica della putrefazione mentre non possono bloccare su tempi lunghi, la componente chimica. La componente biochimica può essere bloccata definitivamente solo trasformando la materia organica in carbone, cosa  ottenibile con la combustione in ambiente povero di ossigeno o con una fermentazione strettamente anaerobica. Una volta carbonificata, la materia organica è assolutamente inattaccabile da parte di batteri di qualsiasi tipo  e può conservarsi indefinitamente purché sia preservata dall’azione dell’ossigeno, per es. mediante seppellimento sotto una coltre di sedimenti in ambiente riducente.

  1. Mummificazione

Un metodo molto noto di conservazione dei cadaveri è la mummificazione. Questo tipo di conservazione si otteneva eliminando la maggior parte possibile dei tessuti più ricchi di acqua e quindi più putrescibili e proteggendo quelli rimanenti. Questo metodo riesce a conservare per alcune migliaia di anni alcuni tipi di materia organica bloccando praticamente l’azione biochimica dei batteri, ma non riesce ad impedire l’ossidazione che lentamente ma inesorabilmente disgrega e distrugge, su lunghi periodi di tempo, ogni tipo di mummia.
Condizioni di disidratazione tali da produrre mummie possono verificarsi in natura in ambienti molto aridi che possono essere sia caldi che freddi. Nei deserti sono frequenti carcasse mummificate di animali di vario tipo; la loro conservazione per tempi geologici non è tuttavia probabile considerando che questi resti vengono sepolti in sedimenti altamente porosi (come le sabbie) e quindi avranno molte probabilità di essere ossidati. Gli ambienti aridi freddi hanno il vantaggio ulteriore di limitare o impedire lo sviluppo  dei batteri anche con la bassa temperatura oltre che con la disidratazione.
Nella letteratura paleontologica sono citati come es. di mummificazione due esemplari di Anatosaurus (dinosauro del Cretaceo) che hanno lasciato, impressa nel sedimento, l’impronta della pelle raggrinzita sullo scheletro. In letteratura sono pure citate anche “mummie” di grossi sdentati trovati in caverne del Nuovo Messico e del Sudamerica e di anfibi e rettili di piccole dimensioni è probabile tuttavia che questi reperti, anche se originariamente mummificati, si siano conservati come calchi oppure tramite il processo di carbonificazione.

  1. Carbonificazione

Qualunque resto di materia organica, organismo intero o frammento minutissimo, abbia superato la zona ossigenata dell’ambiente deposizionale o anche del primissimo ambiente diagenetico, ossia la zona nella quale si possono sviluppare le putrefazioni aerobiche, e sia quindi arrivato in un ambiente privo di ossigeno libero, potrà subire solo delle fermentazioni strettamente anaerobiche.
Queste fermentazioni, ad opera di batteri anaerobici, portano ad una progressiva eliminazione dell’idrogeno e dell’ossigeno con conseguente arricchimento relativo di carbonio.
Di conseguenza, in ambiente assolutamente privo di apporti di ossigeno esterni, gli idrati di carbonio tenderanno a dare origine a carbonio praticamente puro, ossia a carbon fossile, mentre le proteine ed i grassi potranno dar luogo a idrocarburi, liquidi o gassosi, cioè a composti nei quali, oltre al carbonio, è ancora presente l’idrogeno.

Il processo di carbonificazione e bituminazzazione (produzione di idrocarburi) produce già di per sé una diminuzione di volume grazie all’allontanamento dell’ossigeno e dell’idrogeno che costituiscono le molecole. Enormemente più importante è la riduzione di volume che si ha in seguito all’eliminazione della grande quantità di acqua contenuta nei tessuti organici.
Tenendo presente tutti questi processi si comprende come il carbone che si conserva allo stato fossile rappresenti una frazione piccolissima del volume iniziale dell’organismo coinvolto. Tutto ciò che rimane dell’originaria materia organica si può definire antracoleimma dal greco antrax = carbone e leimma = resto. Questa pellicola carboniosa residua non conserva mai la microstruttura interna.
Il grado di schiacciamento, legato alla riduzione di volume, dipende dall’intensità della diagenesi subita, i tronchi cabonificati in modo ancora incompleto che si rinvengono nelle argille quaternarie o plioceniche sono già sensibilmente appiattiti ma presentano ancora le strutture cellulari evidenti, mentre quelli mesozoici sono tipicamente molto più appiattiti e privi di strutture cellulari riconoscibili. Questi  resti sepolti in fanghi mantengono i caratteri morfologici esterni a qualunque stadio di diagenesi, anche se perdono rapidamente per compressione le strutture cellulari, e forniscono generalmente buone informazioni paleontologiche. Quando gli antracoleimma di foglie, fiori ecc. vengono ossidati nell’ambiente esterno prima di poter essere raccolti ed osservati, di essi rimane solo l’impronta esterna, talvolta cosparsa di ossidi di ferro, che ne ripete perfettamente la forma se la grana del sedimento inglobante è sufficientemente fine.
Nelle sabbie di spiagge o nelle alluvioni ghiaiose quaternarie o plioceniche delle nostre regioni, sono frequenti cavità a forma di tronco d’albero con ramificazioni ben conservate contenenti tracce di ossidi di ferro o fanghiglia rugginosa nei punti più bassi. Si tratta evidentemente di impronte esterne di tronchi d’albero dei quali l’antracoleimma è stato ossidato data la grande porosità del sedimento. La fanghiglia è il più delle volte costituita dalla frazione minerale del tronco (cenere) cui può facilmente aggiungersi materiale penetrato fra i ciottoli, e gli ossidi di ferro derivano probabilmente da pirite che generalmente è associata ai resti organici in ambiente riducente.
Analoghe a queste impronte esterne di tronchi possono essere considerati, a parte naturalmente le dimensioni, tutti quei fiori, insetti, piccoli invertebrati, pollini inclusi nell’ambra e descritti come vuoti.
Gli antracoleimmi di spore e pollini sono i meno deformati poiché sono costituti in partenza da tessuti che come la sporopollenina sono particolarmente compatti e poveri di acqua.
La formazione di antracoleimma non è tuttavia esclusiva dei vegetali. Un caso classico tra i vertebrati rappresentato dalle pellicole di carbone attorno agli scheletri permineralizzati degli ittiosauri del Giurassico inferiore di Holzmaden (Germania).
Lo stesso processo si è verificato per tessuti delicati come quelli delle ali delle farfalle, per la conservazione dei graptoliti, di certi pesci a scheletro cartilagineo e, occasionalmente di piccoli rettili.
I resti vegetali o animali sepolti in fango organico producono fossili spesso ben riconoscibili come forma e come strutture cellulari solo se i processi diagenetici non sono molto spinti. Di norma con il procedere della diagenesi, cioè sotto un carico sempre più elevato ed in ambienti a temperatura sempre più alta, i fanghi organici, insieme ai resti vegetali o animali in essi inglobati, subiscono una omogeneizzazione e compressione tali da cancellare o distruggere ogni struttura riconoscibile. Per es., nella torba sono perfettamente riconoscibili frammenti di carbone di legna con le cellule perfettamente conservate anche se vuote. Nella lignite le cellule del carbone naturale fossile sono indeformate solo quando sono impregnate da sostanze organiche; tali sostanze che hanno impregnato le cellule del carbone sono riuscite ad impedire il collasso delle pareti cellulari nell’ambiente diagenetico delle ligniti. Esse non hanno potuto sostenere, tuttavia, gli enormi carichi imposti dalla situazione diagenetica che ha prodotto l’antracite. Superato lo studio della lignite, dunque, tutto viene omogeneizzato e nessun organismo è più riconoscibile.

  1. Permineralizzazione

Non sempre la diagenesi spinta della materia organica porta all’obliterazione totale delle cellule animali o vegetali. Quando i resti organici sono sepolti in fanghi di origine minerale possono verificarsi condizioni in cui acque interstiziali mineralizzate impregnano i tessuti e depositano, all’interno delle cellule organiche, i sali contenuti in forma amorfa o cristallina. Se questa precipitazione di minerali avviene durante le prime fasi dei processi di fermentazione anaerobica, prima che si verifichi lo schiacciamento parziale o totale dei lumina cellulari, le strutture organiche così mineralizzate non si deformeranno più neppure sotto i carichi imposti dalle fasi più avanzate della diagenesi. Questo processo è definito Permineralizzazione o permeazione cellulare e ha permesso la formazione di fossili nei quali è conservata anche la struttura cellulare degli organismi.
Questo processo, noto anche come pietrificazione, è stato per molti anni erroneamente interpretato ritenendo che fosse dovuto ad una “misteriosa” sostituzione di molecole di sostanza organica o inorganica con altre molecole di sostanza inorganica. Numerose argomentazioni negano la validità di questa interpretazione : a) le molecole inorganiche sono in genere molto più piccole di quelle organiche e la loro geometria è completamente diversa, b) è stechiometricamente impossibile che si abbia  sostituzione di calcite o aragonite con silice.
Alla permeazione cellulare possono prendere parte diversi tipi di sostanze minerali presenti nei fluidi circolanti , come carbonato di calcio, silice, siderite, solfuri di ferro.

  1. Carbonati (Concrezioni calcaree fossilifere)

Nelle argille marnose, a basso contenuto in carbonato sono frequenti concrezioni composte prevalentemente da calcite, ma anche da siderite, che racchiudono fossili all’interno. Si tratta di corpi di forma arrotondata: sferoidali, discoidali, ellissoidali, talvolta molto allungati.
I fossili contenuti nelle concrezioni non sono mai schiacciati e quindi si può presumere che essi siano un prodotto allo stadio iniziale. Considerando poi che le concrezioni mantengono sempre dei resti di organismi, risulta plausibile che questi resti abbiano un ruolo importante nella loro genesi.
La decomposizione delle proteine e delle ammine libera ammoniaca che origina un ambiente fortemente alcalino attorno all’animale già sepolto nel sedimento. Poiché la solubilità dei carbonati decresce con l’aumentare del pH, le acque interstiziali, sature di CaCO3, tendono a depositare il carbonato entro i tessuti del resto organico in via di decomposizione e negli interstizi del sedimento inglobante. La precipitazione della calcite riduce localmente la concentrazione di carbonato dando luogo ad un gradiente che attira costantemente nuovi ioni Ca2+ verso il fossile. Questo processo continua fino a quando finisce la produzione di ammoniaca  o si esaurisce la disponibilità di carbonati. Poiché l’ambiente attorno al fossile è tendenzialmente riducente può cristallizzare anche la siderite.

  1. Silicizzazione

La permineralizzazione con silice, pur non essendo la più frequente, è tuttavia la più spettacolare. Il processo di silicizzazione dei legni si verifica in modo completo solo entro depositi piroclastici, probabilmente, oltre che per l’elevato contenuto in silice delle acque interstiziali, anche per l’elevata permeabilità propria di questi depositi che facilita la circolazione delle acque mineralizzanti e la rapida eliminazione dei prodotti di demolizione della materia organica labile.
Le sostanze acide ce si generano nella decomposizione dei legni provocano un abbassamento del pH e quindi causano la deposizione di gel siliceo dalle soluzioni sature di silice. La silice viene così a rivestire lentamente i canali legnosi fino al loro completo riempimento. Nel corso della diagenesi l’opale viene trasformato in quarzo microcristallino; si passa così da legni impregnati di gel di silice ai cosiddetti legni silicizzati.
La trasformazione dall’opale (forma amorfa della silice) nelle diverse forme cristalline del quarzo, altera i particolari più fini delle cellule ma permette la conservazione della morfologia generale di tessuti vegetali.
Anche nel Miocene della Sardegna centrale esiste un affioramento a tronchi silicizzati. (Foresta fossile di Zuri) purtroppo non più accessibile in quanto ricoperto dall’acqua di un bacino artificiale (Lago Omodeo).
Alla permineralizzazione cellulare si deve anche la conservazione di molti microrganismi del Precambriano (es. Cianobatteri).  Nel caso dei batteri, però, la silicizzazione può verificarsi solo a condizione che venga bloccato l’effetto delle autolisine, enzimi propri di questi organismi, che, subito dopo la morte, distruggono le pareti cellulari. Nel caso del Bacillus subtilis alcuni autori hanno messo, in evidenza che l’impregnazione con ioni di ferro, presenti nell’ambiente, blocca l’azione delle autolisine e permette la silicizzazione di cellule intatte.

  1. Pirite ed altri minerali (Piritizzazione e altre mineralizzazioni)

La pirite può produrre parziali permineralizzazioni di tessuti organici. Essa si trova spesso associata ad antracoleimmi e si forma per attività batterica in condizioni anaerobiche. Può riempire gli spazi delle cellule e spesso si presenta sotto forma di framboidi[1]. È frequente osservare diverse generazioni di pirite che hanno riempito spazi lasciati liberi da materia organica in decomposizione. Molto spesso le condizioni ossidanti che predominano in prossimità della superficie alterano la pirite a ossidi di ferro prima che il fossile possa essere raccolto e studiato.



  1. Ghiaccio (Crioconservazione)

La conservazione di esemplari di Mammuthus primigenius e di Mammut americanus (elefanti lanosi adatti ai climi freddi), risalenti all’ultima glaciazione, nelle alluvioni glaciali dei fiumi della Siberia e dell’Alaska, costituisce uno dei casi più noti e straordinari di fossilizzazione. Questo tipo di fossilizzazione è indubbiamente atipica e si può assimilare ad un tipo di permineralizzazione ad opera del ghiaccio (crioconservazione). Le modalità del loro seppellimento sono ancora oggetto di dibattito, ma è plausibile che siano rimasti intrappolati nelle alluvioni fluviali fini nel corso di particolari eventi meteorologici. Le loro carcasse furono preservate dalla decomposizione prima dall’acqua gelida e poi dal successivo congelamento delle alluvioni che rimasero nelel stesse condizioni fino ai nostri giorni. In alcuni esemplari sono stati ritrovati anche resti di cibo dentro il tubo digerente.




1) Framboidi: aggregati sferici di grani di pirite in microcristalli cubici e ottaedrici di dimensioni variabili da pochi micron a un mm.

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