Genetica di Popolazione

Paleontologia

giovedì 6 ottobre 2011

Stomatopodi



Questi speciali artropodi (gli stomatopodi) hanno 16 pigmenti visivi! Quest'ordine conta circa 200 specie in tutto il mondo, 7 di esse vivono nel Mediterraneo e la più comune nei mari italiani è la Squilla mantis.
La caratteristica sorprendente di questi organismi è proprio nel numero dei loro pigmenti visivi, ben 16. La cosa risulta sorprendente se pensiamo che noi abbiamo solo quattro pigmenti e grazie ad essi possiamo vedere milioni di colori.
La loro visione è iperspettrale, possono vedere le lunghezze d'onda dell'ultravioletto e dell'infrarosso, come pure la luce polarizzata. Hanno una visione a 360 gradi e tre parti di ogni occhio può focalizzarsi sullo stesso punto, così ogni singolo occhio ha una visione trinoculare con la percezione della profondità. Presentano un'ampio intervallo focale e gli occhi possono emettere luce, che viene usata da essi per la comunicazione. Essi presentano quindi i più complessi organi della visione di tutto il pianeta.



Bibliografia


http://www.ucmp.berkeley.edu/aquarius/vision.html

domenica 4 settembre 2011

Tuatara - Il Rettile dai Tre Occhi.

di Nannai 


Venir affascinati da un rettile non è da tutti e in genere questi animali non sono i miei preferiti. Anche se devo confessare che la loro natura ancestrale e le loro forme non riescono a non destare in me interesse. La classe dei rettili è una delle più antiche dal punto di vista evolutivo ed è sopravissuta con quattro ordini:  Crocodilia, Squamata, Testudines e Rhynochocephalia (o Sphenodontia). A quest'ultimo ordine appartengono solo due specie sopravvissute entrambe del genere tuatara. Il genere tuatara si può osservare solo in alcune piccole isole rocciose al largo della Nuova Zelanda. In passato il suo areale comprendeva anche la grande isola neozelandese, ma l'arrivo delle navi occidentali con il loro carico di animali domestici e da fattoria e nonchè degli immancabili clandestini delle stive, cioè i ratti, ne hanno limitato la presenza alle sole isole più remote.  Le due specie viventi di tuatara, cioè  lo Sphenodon punctatus e lo Sphenodon guntheri, sono i membri restanti di un gruppo di rettili che abitavano la Terra molto prima dei dinosauri, nel Triassico 220 - 200 milioni di anni fa. E questa è solo una delle caratteristiche che lo rendono così interessante. 

La loro capacità adattativa ai mutamenti climatici dovuti agli spostamenti delle placche tettoniche, che portò a separare la Nuova Zelanda dall'antico continente di Gondwana, ha permesso loro di sopravvivere fino ai giorni nostri acquisendo per diritto, secondo i biologi evoluzionistici, il titolo di "fossile vivente".
Plesiosaurus goldfussi
Altri membri degli Sphenodonti di dimensioni ben maggiori come il plesosauro non sono riusciti a superare i cambiamenti climatici avvenuti nel tempo. Invece, il nostro rettile avvantaggiandosi della capacità di rallentare il suo metabolismo, è riuscito a resistere con maggiore facilità ai climi freddi che hanno interessato il suo habitat permettendogli di superare degnamente queste difficoltà e di giungere  fino a noi.  
Diverse caratteristiche anatomiche e fisiologiche tradiscono la sua ancestralità. Quella che si nota subito osservando un esemplare in natura è la sua andatura che ricorda molto la camminata da anfibio piuttosto che quella da rettile. Anche il cuore e il cervello sono più simili a quelli di un anfibio.
Molto primitiva è anche la struttura del cranio  e quindi non sorprende che i denti piuttosto che essere formati da  radici, da un corpo e ricoperti con lo smalto siano solo dei mozziconi derivati da propaggini delle ossa mascellari. I denti si consumano completamente con l'invecchiamento. Negli esemplari adulti, che possono arrivare a vivere fino a 120 anni, questi si consumano fino alla mascella.  
Ma arriviamo ora alla caratteristica più affascinante di questo antico animale, che si trova alloggiata nella parte dorsale del cranio: il terzo occhio o come preferiscono chiamarlo i biologi evoluzionisti l'occhio parietale. Il tuatara testimonia che in quel periodo dell'evoluzione dei vertebrati si è avuto lo sviluppo di un invaginazione aggiuntiva nel diencefalo, una primitiva regione del proencefalo. Sempre nel diencefalo si originano le tazze ottiche che daranno origine ai bulbi oculari che sono destinati a diventare nei vertebrati gli organi della visione. L'occhio parietale nel tuatara è ben sviluppato tanto che vi si osserva anche un cristallino e una retina. Ben visibile negli individui giovani, il terzo occhio a partire dai sei mesi d'età incomincia a venir coperto da squame e pigmenti. 
0cchio parietale in un giovane esmplare di tuatara

Questo fatto ha spinto alcuni scienziati a suggerire che il terzo occhio del tuatara si sviluppi solo parzialmente in un organo della visione e che abbia una limitata funzione. Questo incompleto sviluppo deriverebbe, secondo questi studiosi, dalla mancanza di ricezione dei necessari segnali di crescita richiesti per completare la sua morfogenesi in un organo pienamente funzionale. Sembra che l'occhio parietale raggiunse il più grande stadio di evoluzione durante il periodo Giurassico tra i membri dell'Ordine Rhynochocephalia e che non riuscì ad evolvere ulteriormente, regredendo in un organo vestigiale, o in una struttura quasi vestigiale nei mammiferi, conosciuta come ghiandola pineale. A mio modesto parere questa conclusione lascia un pò a desiderare. E' evidente che quest'organo nasce come un organo sensorio. Naturalmente avere un organo di senso che svolge le stesse funzioni svolte dagli occhi risulta essere ridondante e porta a un gran dispendio energetico. Anche dal punto di vista biochimico e fisiologico mantenere un organo che non ha funzione è per l'organismo molto dispendioso. In realtà risulta essere attivo e funzionante in quanto sensibile alla luce visibile e non solo. A conferma di questo alcune osservazioni condotte su degli esemplari di tuatara hanno messo in evidenza che la vista del tuatara è ben sviluppata. E si è visto che possiede una migliore vista notturna, che per un animale con abitudini di caccia notturne, è molto importante. Queste osservazioni hanno spinto questi studiosi a studiare la sensibilità di questo rettile agli infrarossi (IR). Sembrerebbe che proprio quella struttura che per altri è solo un organo vestigiale possa avere una sensibilità ai raggi infrarossi e che sia utile all'animale per l'orientamento notturno.



Bibliografia

Emanuele Padoa - Manuale di Anatomia Comparata dei Vertebrati

Sphenodon punctatus

Tuatara – The Most Primitive Reptile

Some Ethological and Biological Observations on the Tuatara in Laboratory Conditions by Roman J. Wojtusiak

domenica 28 agosto 2011

Strategie Difensive nelle Piante

Introduzione: Strategie Difensive delle Piante
di Michael Wink
(tr. Nannai)


Le piante sono organismi autotrofi e servono come principale ed ultima fonte di cibo per gli animali e i microrganismi. Le piante non possono correre via o combattere quando attaccate da un erbivoro, nè hanno un sistema immunitario per proteggerle contro i batteri patogeni, i funghi, i virus o i parassiti. Le piante lottano per la vita, come gli altriorganismi, ed hanno evoluto diverse strategie contro gli animali erbivori, i parassiti, i microrganismi e i virus. Le piante competono anche con le piante vicine per lo spazio, la luce, l'acqua e i nutrienti.
Apparentemente le piante hanno evoluto sia misure di difesa fisica e chimiche simili alle misure di difesa di animali sessili o a lento movimento.

[....] Secondariamente, le piante sono maestre della difesa chimica con una abilità affascinante un elevata diversità di composti chimici di difesa anche conosciuti come metaboliti secondari o allelochimici.
La difesa chimica coinvolge composti macromolecolari come svariate proteine di difesa (inclusa la chitinasi contro le pareti delle cellule fungine), B-1,3 glucanasi (contro i batteri), la perossidasi e la fenolasi, lecitine, inibitori delle proteasi, le toxalbumine e altri peptidi tossici per gli animali, i polisacarridi e i politerpeni.
Ancor più diversi e più rilevanti sono i metaboliti secondari a basso peso molecolare, di cui più di 100.000 sono stati identificati nelle piante.
Tra i metaboliti secondari che vengono prodotti dalle piante gli alcaloidi figurano come una classe molto rilevante di composti di difesa. Più di 21.000 alcaloidi sono stati identificati, che così costituiscono il più grande gruppo tra i metaboliti secondari contenenti-azoto (oltre 700 aminoacidi non proteici, 100 amine, 60 glicosidi cianogenici, 100 glucosinolati e 150 alchilamine). Comunque, la classe dei metaboliti secondari senza azoto è anche più grande, con più di 250.000 terpenoidi, 7000 fenoli e polifenoli, 1500 poliacetileni, acidi grassi, cere e 200 carboidrati.

Alcaloidi - Struttura, Isolamento, Sintesi e Biologia (Fattorusso)

Traduzione di Nannai

original text


1 Ecological Roles of Alkaloids 3
Michael Wink
1.1 Introduction: Defense Strategies in Plants 3
1.2 Ecological Roles of Alkaloids 4
1.3 Modes of Action 9
1.3.1 Unspecific Interactions 11
1.3.2 Specific Interactions 12
1.3.3 Cytotoxicity of Alkaloids 16
1.4 Evolution of Alkaloidal Defense Systems 19
1.5 Conclusions 23

2 Antitumor Alkaloids in Clinical Use or in Clinical Trials 25
Muriel Cuendet, John M. Pezzuto

2.1 Introduction 25
2.2 Antitumor Alkaloids in Clinical Use 25
2.2.1 Vinca Alkaloids 25
2.2.1.1 Vinblastine (VLB, 1) 28
2.2.1.2 Vincristine (VCR, 2) 28
2.2.1.3 Vindesine (VDS, 3) 28
2.2.1.4 Vinorelbine (VRLB, 4) 29
2.2.1.5 Vinflunine (VFL, 5) 29
2.2.2 Camptothecin and Analogs 29
2.2.2.1 Camptothecin (CPT, 6) 31
2.2.2.2 Irinotecan (CPT-11) 31
2.2.2.3 Topotecan 32
2.2.2.4 Exatecan 32
2.2.2.5 Gimatecan 32
2.2.2.6 Karenitecin 32
2.2.2.7 Lurtotecan 32
2.2.2.8 Rubitecan (9-nitrocamptothecin) 33
2.2.3 Taxanes 33
2.2.3.1 Paclitaxel 33
2.2.3.2 Docetaxel 35
2.3 Antitumor Alkaloids in Clinical Trials 36
2.3.1 Ecteinascidin-743 (Yondelis, Trabectedin) 36
2.3.2 7-Hydroxystaurosporine (UCN-01) 37
2.3.3 Ellipticine and Analogs 37
2.3.4 Acronycine and Analogs 38
2.3.5 Colchicine and Analogs 39
2.3.6 Ukrain 40
2.4 Alkaloids Used for MDR Reversal 40
2.4.1 Cinchona Alkaloids 40
2.4.2 Dofequidar Fumarate (MS-209) 41
2.5 Alkaloids Used for Cancer Prevention 42
2.6 Conclusions 43
2.7 Acknowledgments 44

3 Alkaloids and the Bitter Taste 53
Angela Bassoli, Gigliola Borgonovo, Gilberto Busnelli

3.1 Introduction 53
3.2 The Bitter Taste Chemoreception Mechanism 54
3.3 Bitter Alkaloids in Food 58
3.4 The Bitter Taste of Alkaloids in Other Drugs and Poisons 63
3.5 Alkaloids and Taste in Insects 66
3.6 The Bitter Taste of Alkaloids: Should We Avoid, Mask, or
Understand? 69
3.7 Acknowledgments 70
4 Capsaicin and Capsaicinoids 73
Giovanni Appendino
4.1 Introduction 73
4.2 What Is an Alkaloid? Is Capsaicin an Alkaloid? 73
4.3 Diversity, Biosynthesis, and Metabolism of Capsaicinoids 77
4.4 Quantization of Capsaicinoids and Their Distribution in Chili
Pepper 83
4.5 Isolation and Synthesis of Capsaicin 86
4.6 TRV1 as the Biological Target of Capsaicin and the Ecological Raison
d’eˆtre of Capsaicinoids: A Molecular View 90
4.7 Naturally Occurring Analogs and Antagonists of Capsaicin
and Endogenous Vanilloids 93
4.8 Structure–Activity Relationships of Capsaicinoids 94
VI Contents
4.9 Molecular Gastronomy of Hot Food 98
4.9.1 Biomedical Relevance of Capsaicin-Induced Trigeminal
Responses 98
4.9.2 Effect of Capsaicin on Taste 98
4.9.3 Gustatory Sweating 99
4.9.4 Gustatory Rhinitis 99
4.9.5 Hot Food Mitridatism 99
4.9.6 Effect of Capsaicin on Digestion 100
4.9.7 Capsaicin and Stomach Cancer 100
4.9.8 The Effect of Age and Sex on the Sensitivity to Capsaicin 100
4.9.9 Capsaicin as a Slimming Agent 101
4.9.10 Quenching Capsaicin 101
4.9.11 Chilies and Olive Oil 102
4.9.12 Who Should Avoid Chilies? 102
4.9.13 How can the Pungency of Chilies be Moderated? 102
4.9.14 Psychology of Pepper Consumption 102
4.10 Conclusions 103
4.11 Acknowledgments 103
5 Glycosidase-Inhibiting Alkaloids: Isolation, Structure, and
Application 111
Naoki Asano


5.1 Introduction 111
5.2 Isolation and Structural Characterization 111
5.2.1 Deoxynojirimycin and Related Compounds 112
5.2.1.1 Isolation from Morus spp. (Moraceae) 112
5.2.1.2 Isolation from Thai Medicinal Plants ‘‘Thopthaep’’ and ‘‘Cha
Em Thai’’ 113
5.2.2 a-Homonojirimycin and Related Compounds 115
5.2.2.1 Isolation from Garden Plants 115
5.2.2.2 Isolation from the Thai Medicinal Plant ‘‘Non Tai Yak’’ 117
5.2.2.3 Isolation from Adenophora spp. (Campanulaceae) 117
5.2.3 Indolizidine and Pyrrolizidine Alkaloids 117
5.2.3.1 Isolation from the Leguminosae Family 118
5.2.3.2 Isolation from the Hyacinthaceae Family 120
5.2.4 Nortropane Alkaloids 122
5.2.4.1 Isolation from the Solanaceae Family 123
5.2.4.2 Isolation from the Convolvulaceae Family 124
5.3 Biological Activities and Therapeutic Application 125
5.3.1 Antidiabetic Agents 125
5.3.1.1 a-Glucosidase Inhibitors 125
5.3.1.2 Glycogen Phosphorylase Inhibitors 128
5.3.1.3 Herbal Medicines 128
5.3.2 Molecular Therapy for Lysosomal Storage Disorders 129
Contents VII
5.3.2.1 Substrate Reduction Therapy 130
5.3.2.2 Pharmacological Chaperone Therapy 130
5.4 Concluding Remarks and Future Outlook 133
6 Neurotoxic Alkaloids from Cyanobacteria 139
Rashel V. Grindberg, Cynthia F. Shuman, Carla M. Sorrels, Josh Wingerd,
William H. Gerwick
6.1 Introduction 139
6.2 Neurotoxic Alkaloids of Principally Freshwater and Terrestrial
Cyanobacteria 141
6.2.1 Anatoxin-a, Homoanatoxin-a, Anatoxin-a(s), and Analogs 141
6.2.1.1 Anatoxin-a 142
6.2.1.2 Homoanatoxin-a 145
6.2.1.3 Anatoxin-a(s) 145
6.2.2 b-Methylaminoalanine 146
6.2.3 Saxitoxin 151
6.3 Neurotoxic Alkaloids of Marine Cyanobacteria 156
6.3.1 Antillatoxin A and B 156
6.3.2 Jamaicamide A, B, and C 158
6.3.3 Kalkitoxin 161
6.4 Conclusion 162
7 Lamellarin Alkaloids: Structure and Pharmacological Properties 171
Je´roˆme Kluza, Philippe Marchetti, Christian Bailly
7.1 Introduction 171
7.2 The Discovery of Lamellarins 172
7.3 Modulation of Multidrug Resistance 174
7.4 Antioxidant Properties 176
7.5 Inhibition of HIV-1 Integrase 176
7.6 Cytotoxicity 177
7.7 Topoisomerase I Inhibition 178
7.8 Targeting of Mitochondria and Proapoptotic Activities 180
7.9 Conclusion 184
8 Manzamine Alkaloids 189
Jiangnan Peng, Karumanchi V. Rao, Yeun-Mun Choo, Mark T. Hamann
8.1 Introduction 189
8.2 Manzamine Alkaloids from Marine Sponges 191
8.2.1 b-Carboline-containing Manzamine Alkaloids 191
8.2.1.1 Manzamine A Type 191
8.2.1.2 Manzamine B Type 195
8.2.1.3 Manzamine C Type 196
8.2.1.4 Other b-Carboline-containing Manzamines 196
8.2.2 Ircinal-related Alkaloids 198
8.3 Source and Large-scale Preparation of Manzamine Alkaloids 202
VIII Contents
8.3.1 Source of Manzamine Alkaloids 202
8.3.2 Large-scale Preparation of Manzamines 204
8.3.3 Supercritical Fluid Chromatography Separation of Manzamine
Alkaloids 205
8.4 Synthesis of Manzamine Alkaloids 206
8.4.1 Total Synthesis of Manzamine A and Related Alkaloids 206
8.4.2 Total Synthesis of Manzamine C 208
8.4.3 Total Synthesis of Nakadomarin A 214
8.4.4 Synthetic Studies of Manzamine Alkaloids 216
8.4.5 Studies on Biomimetic Synthesis 217
8.4.6 Synthesis of Manzamine Analogs 219
8.5 Biological Activities of Manzamines 220
8.5.1 Anticancer Activity 220
8.5.2 Antimalarial Activity 222
8.5.3 Antimicrobial and Antituberculosis Activity 224
8.5.4 Miscellaneous Biological Activities 225
8.6 Concluding Remarks 226
9 Antiangiogenic Alkaloids from Marine Organisms 233
Ana R. Diaz-Marrero, Christopher A. Gray, Lianne McHardy, Kaoru Warabi,
Michel Roberge, Raymond J. Andersen
9.1 Introduction 233
9.2 Purine Alkaloids 235
9.3 Terpenoid Derivatives 236
9.3.1 Avinosol 236
9.3.2 Cortistatins A–D 237
9.3.3 Squalamine 238
9.4 Motuporamines 240
9.5 Pyrrole-Imidazole Alkaloids: ‘‘Oroidin’’-Related Alkaloids 244
9.5.1 Agelastatin A 245
9.5.2 Ageladine A 247
9.6 Tyrosine-derived Alkaloids 250
9.6.1 Aeroplysinin-1 250
9.6.2 Psammaplin A 254
9.6.3 Bastadins 256
9.7 Tryptophan-derived Alkaloids 259
9.8 Ancorinosides 262
9.9 Concluding Remarks 263
10 A Typical Class of Marine Alkaloids: Bromopyrroles 271
Anna Aiello, Ernesto Fattorusso, Marialuisa Menna,
Orazio Taglialatela-Scafati
10.1 Introduction 271
10.2 Oroidin-like Linear Monomers 273
10.3 Polycyclic Oroidin Derivatives 278
Contents IX
10.3.1 C-4/C-10 Derivatives 278
10.3.2 N-1/C-9 Derivatives 281
10.3.3 N-7/C-11 þ N-1/C-12 Derivatives 281
10.3.4 N-7/C-11 þ C-4/C-12 Derivatives 284
10.3.5 N-1/C-12 þ N-7/C-12 Derivatives 285
10.3.6 N-1/C-9 þ C-8/C-12 Derivatives 285
10.4 Simple or Cyclized Oroidin-like Dimers 286
10.5 Other Bromopyrrole Alkaloids 291
10.6 Conclusions 296
11 Guanidine Alkaloids from Marine Invertebrates 305
Roberto G.S. Berlinck, Miriam H. Kossuga
11.1 Introduction 305
11.2 Modified Creatinine Guanidine Derivatives 305
11.3 Aromatic Guanidine Alkaloids 307
11.4 Bromotyrosine Derivatives 309
11.5 Amino Acid and Peptide Guanidines 310
11.6 Terpenic Guanidines 320
11.7 Polyketide-derived Guanidines 321
II New Trends in Alkaloid Isolation and Structure Elucidation 339
12 Analysis of Tropane Alkaloids in Biological Matrices 341
Philippe Christen, Stefan Bieri, Jean-Luc Veuthey
12.1 Introduction 341
12.2 Extraction 343
12.2.1 Plant Material 343
12.2.2 Supercritical Fluid Extraction 343
12.2.3 Microwave-assisted Extraction 344
12.2.4 Pressurized Solvent Extraction 345
12.2.5 Solid-phase Microextraction 345
12.2.6 Biological Matrices 346
12.3 Analysis of Plant Material and Biological Matrices 348
12.3.1 Gas Chromatography 348
12.3.2 High-performance Liquid Chromatography 355
12.3.3 Capillary Electrophoresis 359
12.3.4 Desorption Electrospray Ionization Mass Spectrometry 361
12.4 Conclusions 362
13 LC-MS of Alkaloids: Qualitative Profiling, Quantitative Analysis,
and Structural Identification 369
Steven M. Colegate, Dale R. Gardner
13.1 Introduction 369
13.2 LC-MS Overview 369
X Contents
13.2.1 Optimization 370
13.2.1.1 Modification of Mobile Phases and Ionization Parameters 370
13.2.1.2 HPLC Versus UPLC 372
13.2.1.3 Fluorinated HPLC Solid Phases 372
13.2.1.4 Reduction of Ion Suppression 373
13.3 Clinical Chemistry and Forensic Applications 374
13.3.1 Extraction and Analytical Considerations 375
13.3.2 Forensic Detection of Plant-derived Alkaloids 375
13.3.2.1 Plant-associated Intoxications 375
13.3.2.2 Illicit Drug Use: Multiple Reaction Monitoring 376
13.3.2.3 Quality Control of Herbal Preparations: APCI-MS 376
13.4 Metabolite Profiling and Structure Determination 376
13.4.1 LC-MS/MS Approaches to the Identification/Structural Elucidation
of Alkaloid Drug Metabolites 377
13.4.1.1 Tandem MS 377
13.4.1.2 Accurate Mass Measurement 378
13.4.1.3 Chemical Modification 378
13.4.2 Minimization of Sample Treatment 378
13.4.3 Structure Determination 380
13.4.3.1 Nudicaulins from Papaver nudicaule:
High-resolution MS 380
13.4.3.2 Endophyte Alkaloids: An MS Fragment Marker 380
13.5 Pyrrolizidine Alkaloids and Their N-Oxides 382
13.5.1 Solid Phase Extraction 383
13.5.2 Qualitative Profiling 383
13.5.2.1 Echium plantagineum and Echium vulgare 385
13.5.2.2 Senecio ovatus and Senecio jacobaea 387
13.5.3 Quantitative Analysis 392
13.5.3.1 Calibration Standards 393
13.5.3.2 Honey 394
13.6 Alkaloids from Delphinium spp. (Larkspurs) 395
13.6.1 Flow Injection (FI) Mass Spectrometry 396
13.6.1.1 Qualitative FI Analysis 397
13.6.1.2 Quantitative FI Analyses 398
13.6.1.3 Chemotaxonomy of Delphinium Species 399
13.6.2 LC-MS Analysis of Diterpene Alkaloids 400
13.6.2.1 Toxicokinetics and Clearance Times 400
13.6.2.2 Diagnosis of Poisoning 401
13.6.3 Structural Elucidation of Norditerpenoid Alkaloids 402
13.6.3.1 Stereochemical Indications 402
13.6.3.2 Isomeric Differentiation Using Tandem Mass
Spectrometry 403
13.6.3.3 Novel Diterpene Alkaloid Identification: Application of Tandem
Mass Spectrometry 405
13.7 Conclusions 405
Contents XI
14 Applications of 15N NMR Spectroscopy in Alkaloid Chemistry 409
Gary E. Martin, Marina Solntseva, Antony J. Williams
14.1 Introduction 409
14.1.1 15N Chemical Shift Referencing 409
14.1.2 15N Chemical Shifts 411
14.1.3 15N Reviews and Monographs 411
14.2 Indirect-Detection Methods Applicable to 15N 412
14.2.1 Accordion-optimized Long-range 1H–15N Heteronuclear Shift
Correlation Experiments 413
14.2.2 Pulse Width and Gradient Optimization 414
14.2.3 Long-range Delay Optimization 414
14.2.4 Establishing F1 Spectral Windows 416
14.3 15N Chemical Shift Calculation and Prediction 418
14.3.1 Structure Verification Using a 15N Content Database 418
14.3.2 15N NMR Prediction 419
14.3.3 Enhancing NMR Prediction With User-‘‘trained’’ Databases 420
14.3.4 Validating 15N NMR Prediction 420
14.4 Computer-assisted Structure Elucidation (CASE) Applications
Employing 15N Chemical Shift Correlation Data 422
14.5 Applications of 15N Spectroscopy in Alkaloid Chemistry 428
14.6 Applications of Long-range 1H–15N 2D NMR 430
14.6.1 Five-membered Ring Alkaloids 430
14.6.2 Tropane Alkaloids 436
14.6.3 Indoles, Oxindoles, and Related Alkaloids 437
14.6.3.1 Strychnos Alkaloids 437
14.6.3.2 Azaindoles 439
14.6.3.3 Indoloquinoline Alkaloids 439
14.6.3.4 Vinca Alkaloids 441
14.6.3.5 Other Indole Alkaloids 442
14.6.4 Carboline-derived Alkaloids 448
14.6.5 Quinoline, Isoquinoline, and Related Alkaloids 450
14.6.6 Benzo[c]phenanthridine Alkaloids 453
14.6.7 Pyrazine Alkaloids 456
14.6.8 Diazepinopurine Alkaloids 459
14.7 Pyridoacridine, Quinoacridine, and Related Alkaloids 460
14.8 Conclusions 465
III New Trends in Alkaloid Synthesis and Biosynthesis 473
15 Synthesis of Alkaloids by Transition Metal-mediated Oxidative
Cyclization 475
Hans-Joachim Kno¨lker
15.1 Silver(I)-mediated Oxidative Cyclization to Pyrroles 475
15.1.1 Synthesis of the Pyrrolo[2,1-a]isoquinoline Alkaloid Crispine A 477
XII Contents
15.1.2 Synthesis of the Indolizidino[8,7-b]indole Alkaloid
Harmicine 478
15.2 Iron(0)-mediated Oxidative Cyclization to Indoles 478
15.3 Iron(0)-mediated Oxidative Cyclization to Carbazoles 481
15.3.1 3-Oxygenated Carbazole Alkaloids 482
15.3.2 Carbazole-1,4-Quinol Alkaloids 483
15.3.3 Furo[3,2-a]carbazole Alkaloids 483
15.3.4 2,7-Dioxygenated Carbazole Alkaloids 485
15.3.5 3,4-Dioxygenated Carbazole Alkaloids 487
15.4 Palladium(II)-catalyzed Oxidative Cyclization to
Carbazoles 488
15.4.1 Carbazolequinone Alkaloids 489
15.4.2 Carbazomadurins and Epocarbazolins 492
15.4.3 7-Oxygenated Carbazole Alkaloids 493
15.4.4 6-Oxygenated Carbazole Alkaloids 495
16 Camptothecin and Analogs: Structure and Synthetic Efforts 503
Sabrina Dallavalle, Lucio Merlini
16.1 Introduction: Structure and Activity 503
16.2 Synthetic Efforts 507
17 Combinatorial Synthesis of Alkaloid-like Compounds In Search
of Chemical Probes of Protein–Protein Interactions 521
Michael Prakesch, Prabhat Arya, Marwen Naim, Traian Sulea,
Enrico Purisima, Aleksey Yu. Denisov, Kalle Gehring, Trina L. Foster,
Robert G. Korneluk
17.1 Introduction 521
17.2 Protein–Protein Interactions 523
17.3 Alkaloid Natural Products as Chemical Probes of Protein–Protein
Interactions 524
17.4 Indoline Alkaloid Natural Product-inspired
Chemical Probes 525
17.4.1 Indoline Alkaloid-inspired Chemical Probes 526
17.4.2 Tetrahydroquinoline Alkaloid-inspired Chemical Probes 528
17.5 Alkaloid Natural Product-inspired Small-molecule Binders to Bcl-2
and Bcl-XL and In Silico Studies 532
17.5.1 Alkaloid Natural Product-inspired Small-molecule Binders to
Bcl-XL and NMR Studies 533
17.5.2 Alkaloid Natural Product-inspired Small-molecule Probes
for XIAP 535
17.5.2.1 Cell Death Assay 535
17.5.2.2 Caspase-3 Activation Assay 536
17.5.2.3 Caspase-9 Release Assay 536
17.5.3 Summary and Future Outlook 536
17.6 Acknowledgments 538
Contents XIII
18 Daphniphyllum alkaloids: Structures, Biogenesis, and Activities 541
Hiroshi Morita, Jun’ichi Kobayashi


18.1 Introduction 541
18.2 Structures of Daphniphyllum Alkaloids 542
18.2.1 Daphnane-type Alkaloids 542
18.2.2 Secodaphnane-type Alkaloids 543
18.2.3 Yuzurimine-type Alkaloids 543
18.2.4 Daphnilactone A-type Alkaloids 543
18.2.5 Daphnilactone B-type Alkaloids 544
18.2.6 Yuzurine-type Alkaloids 544
18.2.7 Daphnezomines 545
18.2.8 Daphnicyclidins 551
18.2.9 Daphmanidins 557
18.2.10 Daphniglaucins 559
18.2.11 Calyciphyllines 560
18.2.12 Daphtenidines 560
18.2.13 Other Related Alkaloids 561
18.3 Biosynthesis and Biogenesis 564
18.3.1 Biosynthesis of Daphniphyllum Alkaloids 564
18.3.2 Biogenesis of the Daphnane and Secodaphnane Skeletons 564
18.3.3 Biogenesis of the Daphnezomines 565
18.3.4 Biogenesis of the Daphnicyclidins 568
18.3.5 Biogenesis of the Daphmanidins 569
18.3.6 Biogenesis of the Daphniglaucins 570
18.3.7 Biogenesis of the Calyciphyllines 573
18.3.8 Biogenesis of the Daphtenidines 573
18.4 Synthesis 575
18.4.1 Biomimetic Chemical Transformations 575
18.4.1.1 Transformation of an Unsaturated Amine to the Daphnane
Skeleton 575
18.4.1.2 Transformation of Daphnicyclidin D to Daphnicyclidins E and J 575
18.4.2 Biomimetic Total Synthesis 576
18.4.2.1 Methyl Homosecodaphniphyllate and Protodaphniphylline 576
18.4.2.2 Secodaphniphylline 579
18.4.2.3 Methyl Homodaphniphyllate and Daphnilactone A 580
18.4.2.4 Codaphniphylline 582
18.4.2.5 Bukittinggine 583
18.4.2.6 Polycyclization Cascade 583
18.5 Activities 585
18.6 Conclusions 586
19 Structure and Biosynthesis of Halogenated Alkaloids 591
Gordon W. Gribble
19.1 Introduction 591
19.2 Structure of Halogenated Alkaloids 591
XIV Contents
19.2.1 Indoles 591
19.2.2 Carbazoles 596
19.2.3 b-Carbolines 596
19.2.4 Tyrosines 598
19.2.5 Miscellaneous Halogenated Alkaloids 603
19.3 Biosynthesis of Halogenated Alkaloids 605
19.3.1 Halogenation Enzymes 605
19.3.2 Indoles 606
19.3.3 Biosynthesis of Halogenated Tyrosines 609
19.3.4 Biosynthesis of Miscellaneous Alkaloids 612

20 Engineering Biosynthetic Pathways to Generate Indolocarbazole
Alkaloids in Microorganisms 619
Ce´sar Sa´nchez, Carmen Me´ndez, Jose´ A. Salas

20.1 Introduction 619
20.2 Studies Made Before the Identification of Biosynthetic Genes 620
20.3 Identification of Genes Involved in Indolocarbazole Biosynthesis 621
20.3.1 Genes Involved in Rebeccamycin Biosynthesis 621
20.3.2 Genes Involved in Staurosporine Biosynthesis 625
20.3.3 Genes Involved in Biosynthesis of Other Indolocarbazoles 625
20.4 Indolocarbazole Biosynthetic Pathways and Their Engineering 626
20.4.1 Tryptophan Modification 626
20.4.2 Formation of Bisindole Pyrrole 627
20.4.3 Formation of Carbazole 630
20.4.4 Formation of the Sugar Moiety 632
20.4.4.1 Sugar Moieties in Rebeccamycin and AT2433 632
20.4.4.2 The Staurosporine Sugar Moiety 634
20.4.5 Regulation and Self-resistance 636
20.5 Perspectives and Concluding Remarks 637

sabato 23 luglio 2011

Mycobacterium tuberculosis


Il Mycobacterium tuberculosis (Fig. 1), agente eziologico della tubercolosi, è un microrganismo bastoncellare aerobio obbligato, immobile ed asporigeno.
Viene comunemente considerato Gram-positivo ed è caratterizzato da alcol-acido resistenza evidenziabile mediante la colorazione di Ziehl-Neelsen. Questi microrganismi sono molto resistenti agli agenti chimici e fisici, mostrano una sensibilità media al calore mentre resistono a lungo all'essicamento. Si distinguono 5 varietà di bacillo tubercolare: umano, bovino, aviario, murino e degli animali a sangue freddo, delle quali solo le prime due hanno importanza nella patologia umana.
La trasmissione avviene principalmente per via aerea (attraverso l'esposizione al bacillo presente nelle goccioline di secreto bronchiale del soggetto infetto). Un'altra via di introduzione molto rara è rappresentata dalla via cutaneo-mucosa (per contatto di lesioni cutanee o di membrane mucose con materiale infetto). Rarissimo è il contagio indiretto (attraverso oggetti contaminati). Il contagio è possibile fino a quando i bacilli continuano ad essere presenti nelle secrezioni del paziente infetto. Talvolta nei pazienti non trattati, o trattati in modo inadeguato, il periodo di contagiosità può durare anche anni. Il grado di contagiosità dipende essenzialmente dal numero di bacilli tubercolari emessi (carica infettante) e dalla loro virulenza.
Il Mycobacterium tuberculosis penetra nell'organismo prevalentemente attraverso la via respiratoria per cui la localizzazione più frequente è quella polmonare. Inizialmente si forma un focolaio a carattere essudativo che quasi sempre evolve verso la guarigione con conseguente caseificazione residua (complesso primario); nel soggetto colpito si instaura così uno stato immunoallergico che lo rende più resistente ad una successiva reinfezione (1). In circa il 20% dei casi tuttavia il bacillo tubercolare permane in forma latente a livello dei linfonodi interessati. Solo raramente una lesione primaria polmonare può evolvere in tubercolosi polmonare e solo in alcuni casi, attraverso vari meccanismi (disseminazione ematica, diffusione intrabronchiale), si può avere una localizzazione diffusa del batterio (tubercolosi miliare). È possibile anche contrarre un'infezione primaria per via alimentare (Mycobacterium bovis) con conseguente localizzazione a livello intestinale.
La tubercolosi post-primaria insorge a causa di un'infezione che può essere esogena (penetrazione di nuovi bacilli dall'esterno) o endogena (riattivazione dei micobatteri latenti nelle lesioni primarie in seguito ad un'attenuazione delle difese immunitarie del soggetto). La tubercolosi polmonare post-primaria non opportunamente curata può progredire fino alla formazione di caverne nel tessuto polmonare dalle quali il germe può diffondere attraverso le secrezioni bronco-polmonari anche al tratto gastroenterico. È possibile inoltre una diffusione linfoematogena con localizzazione a carico di vari organi quali reni, meningi, cervello, ecc..(2)

Epidemiologia


Il M. tuberculosis è stato per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX una delle principali cause di morte di natura infettiva. A partire dagli anni ’70 ed i primi anni ’80, in seguito all’impiego di farmaci antitubercolari efficaci, si era riusciti a debellare la patologia nei Paesi industrializzati e a controllarla nei Paesi in via di sviluppo.
Questa tendenza incominciò ad invertirsi a metà degli anni ’80, quando si ebbe un aumento dei casi tra i malati di AIDS.
È importante sottolineare che un individuo HIV-positivo ha un rischio 100 volte superiore di ammalarsi di tubercolosi e comunque di contrarre altre patologie infettive in quanto il deficit immunitario, determinato dalla malattia, permette che tante altre infezioni (polmoniti, micosi ecc.) possano essere acquisite.
Grande importanza eziologica hanno assunto ultimamente anche i cosiddetti MOTT (Mycobacteria Other Than Tuberculosis) che, sebbene non siano agenti eziologici di tubercolosi propriamente detta ed abbiano un’incidenza nettamente inferiore a quella di M. tuberculosis a causa della loro minor virulenza, possono causare infezioni in pazienti con alterazioni della risposta immunitaria.
Alcune stime del 1990 hanno calcolato che circa 3 milioni di soggetti sono infetti sia da HIV che da tubercolosi, la maggior parte dei quali vive nell’Africa sud-Sahariana.
I maggiori paesi a rischio per associazione TBC-HIV sono l'Uganda, il Senegal, lo Zambia, la Costa d'Avorio (dove si trovano oltre il 40% dei malati) (3).
Nel 1993, la gravità della situazione costrinse l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) a dichiarare la tubercolosi un’emergenza globale (Fig. 2) nel tentativo di accrescere la consapevolezza pubblica e politica.
L’allarme del WHO fu sentito anche in Italia dove negli ultimi 15 anni si è avuto un aumento di incidenza dai 7 ai 9 casi ogni 100.000 abitanti (Fig. 3). Tendenza che sembra dovuta alla forte immigrazione di soggetti provenienti da paesi ad alta endemia tubercolare, dall’aumento dei sieropositivi e dal nuovo sistema di segnalazione dei
casi (non più limitata ai soli casi conclamati).
La tubercolosi va considerata alla stregua delle altre malattie infettive: come queste, diffondendosi in una popolazione "vergine", ha un suo picco di diffusione superato il quale il livello d'infezione declina.
A differenza delle comuni malattie infettive, nelle quali questo avviene in un tempo relativamente breve (settimane o mesi), per la tubercolosi si considera che siano necessari 300 anni perché la malattia completi il suo ciclo. Nell'arco di tale periodo si distinguono tre fasi di diffusione:
    una fase iniziale, caratterizzata da elevata morbosità e mortalità, corrispondente alla rapida diffusione in una popolazione vergine;
    una fase di "transizione", nella quale la mortalità decresce ma la morbosità ed il tasso di infezione (svelato dalla positività alla tubercolina) sono ancora in aumento;
    una fase "endemica", con riduzione sia della mortalità che della morbosità e del tasso di infezione, con spostamento dell'età della prima infezione dall'infanzia all'età adulta.
In passato, in Europa e Nord America la fase di diffusione della tubercolosi corrispose all'inizio della rivoluzione industriale (XVIII secolo), periodo distinto da massicci fenomeni di urbanizzazione accompagnati da una caduta del livello igienico delle popolazioni. In Italia il primo periodo documentabile di diffusione della malattia corrispose agli anni tra il 1887 ed il 1928, il secondo dal 1928 al 1947 ed il terzo periodo dal 1947 ad oggi.

Incidenza
L’uomo è l’unico serbatoio di M. tuberculosis e si calcola che nel mondo più di un miliardo di persone siano state infettate da questo microrganismo e che i nuovi casi ammontino a sedici milioni ogni anno, mentre tre milioni di persone muoiono annualmente in seguito a questa malattia. (4).
Le infezioni da micobatteri hanno fatto registrare negli ultimi anni un preoccupante incremento dei casi anche nei paesi industrializzati.
Tra le cause che stanno determinando il risveglio di una patologia che si riteneva in estinzione (5) dobbiamo annoverare sicuramente la diffusione delle infezioni sostenute da HIV e l’immigrazione di soggetti provenienti da paesi ad alta endemia tubercolare. Infatti, nonostante la validità della chemioterapia a breve corso (DOTS) e il vaccino di Calmette-Guerin (BCG), il bacillo tubercolare continua a rivendicare più vite di qualsiasi altro singolo agente infettivo.
Questo nuovo orientamento presenta come peculiarità la diffusione di
ceppi resistenti ai farmaci e una mortale sinergia con il virus dell’Immunodeficienza Umana (HIV).

Patogenicità
Non si conosce ancora bene il meccanismo che sta alla base dell’azione patogena del Mycobacterium tuberculosis. Questo microorganismo non produce esotossine, quindi l’azione patogena sembra imputabile ad una sua tossicità intrinseca legata ad alcuni lipidi della parete cellulare (Fig. 4) presenti in grande quantità (circa il 60 % del peso secco). Questa caratteristica spiega la particolare idrofobicità che presentano questi microorganismi ed anche l’impermeabilità ai coloranti e l’alcol-acido resistenza.
Analizzati dal punto di vista biochimico, questi lipidi risultano essere
in parte vere e proprie cere, in parte glicolipidi, questi ultimi denominati micosidi dei quali uno in particolare è considerato essere direttamente correlato con la virulenza: il fattore cordale. I ceppi privati di questo micoside, infatti, risultano avirulenti pur conservando la vitalità.
In vitro sono in grado di inibire la migrazione dei polimorfonucleati e risultano letali se somministrati sottocute nel topo.
Membrana plasmatica

Un altro micoside di notevole importanza è la cera D (free lipids in Fig. 4), sostanza localizzata nello strato basale della parete e formata da acidi micolici e da un glicopeptide.
La cera D ha il potere di aumentare l’immunogenicità ed induce inoltre una ipersensibilità di tipo ritardato alla tubercolina. La frazione fosfatidica grezza è direttamente responsabile della tipica reazione granulomatosa che porta alla formazione del tubercolo compresa la necrosi caseosa. Ciononostante la tubercolosi non è una malattia altamente contagiosa e nel soggetto immunocompetente causa, come unico segno dell’avvenuta infezione, la reattività alla PPD (derivato proteico purificato).
Le conseguenze dell’inalazione o ingestione di bacilli tubercolari variano principalmente in funzione della virulenza del microorganismo ed al grado di resistenza che l’organismo ospite oppone all’infezione. Solitamente l’infezione primaria nell’ospite immunocompetente produce una reazione autolimitante anche se, nei casi estremi, la malattia può progredire portando a morte il soggetto infettato. Le lesioni istopatologiche caratteristiche della malattia possono essere di tipo essudativo o produttivo. Le prime sono presenti nelle fasi iniziali del contagio o quando il microorganismo prolifera in carenza di risposta immune adeguata da parte dell’ospite. Le seconde sono tipiche della fase in cui il soggetto infettato ha sviluppato una ipersensibilità alle proteine tubercolari. In questo caso i macrofagi si dispongono concentricamente attorno ai focolai di infezione sotto forma di cellule epitelioidi che si allungano a formare i granulomi tubercolari tipici di questa malattia.
Alcune di queste cellule talora si fondono tra loro a formare le cellule giganti caratterizzate dalle presenza di numerosi nuclei e da bacilli viventi intracitoplasmatici. Le cellule epitelioidi vengono circoscritte dal parenchima dell’organo colpito grazie alla presenza di linfociti e fibroblasti in proliferazione. Mentre nella fase iniziale dell’infezione è di gran lunga più frequente la localizzazione intracitoplasmatica dei bacilli, nella fasi più tardive è più facile ritrovarli in sede extracellulare, probabilmente perché i macrofagi attivati riescono meglio a distruggerli una volta fagocitati.

Resistenza e terapia 

La terapia della tubercolosi si protrae usualmente per periodi molto lunghi (6-9 mesi), questo perché le molecole utilizzate necessitano per agire di organismi metabolicamente attivi, mentre M. tuberculosis cresce molto lentamente.
Un altro caposaldo della terapia antitubercolare è l’utilizzo contemporaneo di più chemioterapici. Questa condotta diminuisce di gran lunga la possibilità di selezionare resistenti: la notevole quantità di batteri presenti a livello della lesione e la diminuita efficacia delle difese messe in atto dall’ospite permettono ai rari mutanti resistenti di moltiplicarsi grandemente favoriti in passato dall’esposizione ad un unico farmaco.
L’emergenza di resistenti spontanei è la regola ed è direttamente proporzionale alla quantità di bacilli esposti al farmaco.
Nel paziente affetto da tubercolosi è verosimile suddividere i bacilli in tre differenti sottopopolazioni. La prima, maggiormente rappresentata, corrisponde ai microorganismi che si sviluppano attivamente in ambiente extracellulare. La seconda sottopopolazione, anch’essa extracellulare, si riproduce più lentamente della precedente nel contesto della necrosi caseosa, mentre la terza, a lenta crescita, si riproduce in ambiente intracellulare ed è quella presente all’interno dei macrofagi e dei monociti. Non tutti i farmaci antitubercolari dimostrano la stessa efficacia nei confronti di queste tre sottopopolazioni, infatti isoniazide, streptomicina ed etambutolo risultano essere particolarmente attivi nei confronti delle popolazioni extracellulari metabolicamente attive; la rifampicina sembrerebbe attiva unicamente nei confronti della porzione di bacilli extracellulari a crescita più lenta. I micobatteri intracellulari sono invece sensibili alla pirazinamide che sperimentalmente si è dimostrata molto efficace.
Recenti studi hanno dimostrato come la terapia della tubercolosi possa essere protratta per un periodo di tempo più breve con risultati eccellenti quando si utilizzino antitubercolari attivi nei confronti delle suddette sottopopolazioni.
Una volta iniziato il trattamento, si assiste a miglioramento della sintomatologia in 2-3 settimane, anche se sono necessari almeno due mesi perché si negativizzi l’escreato.
Nei pazienti adulti con localizzazione unicamente polmonare è possibile intervenire con protocolli terapeutici che prevedono una terapia della durata di sei mesi comprendente in associazione isoniazide, rifampicina e pirazinamide. A questo protocollo terapeutico è possibile associare, per un periodo di due mesi, un altro antitubercolare quale la streptomicina.
I protocolli di durata maggiore (nove mesi) prevedono l’utilizzo di isoniazide e rifampicina con l’eventuale aggiunta di etambutolo per i primi due mesi (6).
I pazienti sottoposti a terapia antitubercolare possono essere considerati non più infetti dopo 2-4 settimane.
In caso di sospetta resistenza ai farmaci si dovrà iniziare la terapia comprendendo quattro farmaci (isoniazide, rifampicina, etambutolo e pirazinamide) finché non sia noto l’esito dell’antibiogramma.


mercoledì 15 giugno 2011

La Commissione Europea annuncia una nuova strategia per arrestare la perdita di biodiversità entro i prossimi dieci anni


La strategia prevede sei obiettivi che, incentrati sui principali fattori responsabili della perdita di biodiversità, ridurranno in certa misura la pressione che questi esercitano sulla natura e sui servizi ecosistemici nell’UE vincolando le principali politiche settoriali a obiettivi relativi alla biodiversità.

Il commissario europeo responsabile per l’ambiente Janez Potočnik ha dichiarato: “Noi esseri umani, oltre ad essere parte integrante della biodiversità, dipendiamo da essa per procurarci cibo, acqua e aria pulite, e un clima stabile. È il nostro capitale naturale, che stiamo spendendo troppo in fretta — e tutti noi sappiamo cosa accade quando ci indebitiamo al di là delle nostre possibilità. Dovremmo tutti riconoscere la gravità della situazione e l’incapacità finora dimostrata di risolvere il problema. È giunto il momento di impegnarsi molto più a fondo. Sono certo che questo nuovo approccio multisettoriale ci metterà sulla giusta strada per arrestare la perdita di biodiversità entro il 2020”.

Migliore tutela per un mondo messo a dura prova
In Europa la biodiversità è a un punto critico, con l’estinzione delle specie che aumenta a ritmi mai registrati prima. Il degrado di molti ecosistemi ha raggiunto un’entità tale per cui essi non sono più in grado di fornire l’ampia gamma di servizi da cui dipendiamo, dall’aria e acqua pulite, all’impollinazione delle colture, alla protezione dalle inondazioni. Tale degrado si traduce in enormi perdite socioeconomiche per l’UE. Si stima, ad esempio, che l’impollinazione ad opera degli insetti, in netto calo in Europa, abbia un valore economico di 15 miliardi di euro all’anno nell’UE. La situazione non è meno preoccupante a livello mondiale.

La strategia adottata oggi prevede sei obiettivi prioritari e azioni d’accompagnamento per ridurre in modo sostanziale le minacce che incombono sulla biodiversità. Tra le azioni si annoverano:
  • piena attuazione della normativa vigente in materia di protezione della natura e della rete di riserve naturali, onde apportare ingenti migliorie allo stato di conservazione di habitat e specie;
  • migliorare e ripristinare gli ecosistemi e i servizi ecosistemici laddove possibile, in particolare aumentando l’uso delle infrastrutture verdi;
  • garantire la sostenibilità delle attività agricole e forestali;
  • salvaguardare e proteggere gli stock ittici dell’UE;
  • contenere le specie invasive, sempre più spesso causa della perdita di biodiversità nell’UE;
  • aumentare il contributo dell’UE all’azione concertata internazionale per scongiurare la perdita di biodiversità.

Mantenere gli impegni
La strategia è in linea con due grandi impegni assunti dai dirigenti europei nel marzo del 2010, ossia porre fine alla perdita di biodiversità nell’UE entro il 2020 e proteggere la biodiversità e i servizi ecosistemici dell’UE, attribuirvi un valore e ripristinarli entro il 2050. Va anche di pari passo con gli impegni internazionali assunti a Nagoya nell’ottobre del 2010, nell’ambito della convenzione sulla diversità biologica, in occasione della quale i leader mondiali hanno adottato una serie di misure per far fronte alla biodiversità a livello mondiale nei prossimi dieci anni.
Parte integrante della strategia Europa 2020, la strategia sulla biodiversità contribuirà a far sì che l’UE raggiunga non solo gli obiettivi che si è data in fatto di efficienza delle risorse, garantendo una gestione sostenibile del proprio capitale naturale, ma anche quelli in materia di mitigazione dei cambiamenti climatici e adattamento ai medesimi, migliorando la resilienza degli ecosistemi e i servizi da essi forniti.

Contesto
Il patrimonio naturale del pianeta e le risorse naturali, dalle singole specie a ecosistemi come le foreste, le barriere coralline, i bacini idrici e i suoli, si stanno riducendo ad un ritmo allarmante. La perdita di biodiversità costa ogni anno miliardi all’economia mondiale, danneggia le singole economie, compromette le prospettive economiche e le possibilità di combattere la povertà.
Nell’UE la perdita di biodiversità è soprattutto dovuta a cambiamenti nell’utilizzo del territorio, inquinamento, sfruttamento eccessivo delle risorse, diffusione incontrollata di specie non autoctone e cambiamenti climatici. La pressione esercitata da tutti questi fattori è costante o in aumento. Solo il 17% degli habitat e delle specie esaminati godono di uno stato di conservazione soddisfacente e la maggior parte degli ecosistemi non riesce più a fornire in quantità e qualità ottimali i servizi da cui dipendiamo, come l’impollinazione delle colture, aria e acqua pulite, il controllo delle inondazioni o dell’erosione.
Il ritmo attuale a cui le specie si estinguono sul nostro pianeta è mille volte superiore a quello naturale, a causa soprattutto delle attività umane. Nell’UE circa il 25% delle specie animali europee, tra cui i mammiferi, gli anfibi, i rettili, gli uccelli e le farfalle, sono a rischio di estinzione, mentre l’88% degli stock ittici sono troppo sfruttati o molto depauperati.

Per chi vuole approfondire:

Per informazioni complete sul contenuto della comunicazione si rimanda a:
http://ec.europa.eu/environment/nature/biodiversity/policy/index_en.htm

Per chiarimenti sulla nuova strategia, si veda: MEMO/11/268

Si veda anche la campagna della Commissione sulla biodiversità:
http://ec.europa.eu/environment/biodiversity/campaign/index_it.htm

Per saperne di più sulla politica dell’UE in materia di biodiversità post 2010, si veda:
http://ec.europa.eu/environment/nature/biodiversity/policy/index_en.htm

lunedì 18 aprile 2011

Tossine Batteriche

I batteri sono produttori di tossine, queste possono essere libere o proprie della parete cellulare del batterio. E' quindi bene fare una chiara distinzione tra endotossine ed esotossine.
Le esotossine sono proteine prodotte dai batteri e rilasciate nell'ambiente circostante, ma alcune volte sono anche legate alla superficie batterica e liberate solo in seguito alla lisi della cellula batterica.
Le endotossine, invece, sono componenti strutturali della membrana cellulare esterna del batterio, in genere di natura lipopolissacaridica. In genere si ritrovano sui batteri Gram (-) e funzionano da tossine solo in particolari casi.
Le funzioni delle tossine non sono strettamente correlate alla crescita del batterio ma in diversi casi esse diventano essenziali per la sua sopravvivenza e disseminzione. La loro relativa importanza per la sopravvivenza della cellula batterica sembrerebbe spiegare il motivo per cui i geni per la loro codificazione in genere si trovano sul dna plasmidico o in batteriofagi temperati. (esempi di tossine sintetizzate da batteriofagi sono quelle della difterite, del botulismo e della scarlattina.).
Tossine sintetizzate da plasmidi sono quelle che causano la diarrea in alcuni ceppi di Escherichia coli e in alcuni stafilococchi che causano la dermatite esfoliativa del neonato.
Il problema che risulta dal fatto che questi geni si trovano su porzioni di DNA mobili e che questi plasmidi posson trasferirsi su ceppi o specie di batteri non tossigenici.
Le tossine presentano un ruolo fondamentale in alcuni casi come quando le sostanze nutritizie scarseggiano. Ad esempio, grandi quantità di tossina difterica viene prodotta quando i bacilli della difterite non dispongono più di ferro. Facendo in modo che il ferro si liberi dai tessuti distrutti e renderlo utilizzabile dal batterio.
Anche i batteri che entrano in sporulazione sono caratterizzati dalla produzione di tossine. Quando vanno in processo di sporulazione i batteri lisano la propria cellula liberando le tossine racchiuse all'interno della propria cellula. Un esempio di questo tipo di batteri patogeni sporulanti è dato dal genere Clostridium che causano il botulismo, la gangrena gassosa e il tetano.
Le tossine batteriche funzionano in qunatità estremamente basse e costituiscono i veleni più potenti conosciuti. Un 1g. di tossina tetanica, botulinica, o di Shigella basta per uccidere 10 milioni di persone.
Ma è anche vero che le tossine aiutano i batteri a crescere nei tessuti e a diffondersi. Alcuni streptococchi secernono, ad es., una Ialuronidasi che decompone l'acido ialuronico del tessuto connettivo. Inoltre secernono una DNAsi che diluisce il pus reso denso dal DNA rilasciato dai leucociti morti.

sabato 16 aprile 2011

Test Elisa: metodo diretto (a Sandwich) e indiretto


Molti dei metodi di diagnosi richiedono che si coltivi il patogeno e che poi si analizzi lo spettro delle proprietà fisiologiche che ne consentano l'identificazione. I saggi di questo tipo sono molto efficienti però risultano spesso essere costosi e lenti. Così quando è possibile si preferisce utilizzare i procedimenti diagnostici di tipo immunologico che risultano essere sensibili, specifici e semplici.
Vi sono tuttavia, come in tutte le metodiche, alcuni limiti. Se il bersaglio è una proteina, l'impiego degli anticorpi esige che siano espressi i geni che esprimono la proteina-bersaglio e che il bersaglio non sia mascherato o bloccato in alcun modo in modo tale che il legame dell'anticorpo non sia ostacolato.
Un'altra limitazione che deriva dall'uso dei saggi immunologici è che essi non distinguono tra infezioni attuali o pregresse, in quanto mirano solamente a rivelare gli anticorpi del patogeno nel sangue degli individui colpiti.
A parte questo i saggi immunologici come quelli ELISA sono ampiamente utilizzati per la loro facilità d'utilizzo e rapidità d'uso.

Saggio E.L.I.S.A ( Enzyme-Linked Immunoabsorbent Assay)

Il saggio dell'immunoadsorbente legato all'enzima è un saggio che viene usato per stabilire se nel campione è presente l'antigene (saggio diretto) o l' anticorpo specifico contro un antigene (saggio indiretto).
Nel metodo diretto o a Sandwich si ricerca la presenza dell'antigene nel campione biologico. Il metodo può venir schematizzato idealmente in tre fasi:
1) Si fissa sul substrato, che può essere il PVC o nitrato di cellulosa della multiwell a 96 pozzetti per i campioni, un anticorpo monoclonale specifico per l'antigene che vogliamo ricercare.
2) A questo punto si inserisce, in forma sierica, il campione biologico del quale vogliamo verificare la presenza o meno dell'antigene. 
Dopo una o due ore se l'anticorpo ha trovato il suo epitopo specifico lo lega a se formando il complesso anticorpo-antigene. Ora si può lavare il tutto abbondantemente per rimuovere l'antigene non legato.
3) Quindi ora nei nostri pozzetti abbiamo il complesso antigene-anticorpo che però risulta invisibile ad occhio nudo o all'uso dello spettrofotometro. Fatto questo il passaggio successivo da fare è quello di renderli visibili. Questo lo si ottiene aggiungendo un anticorpo monoclonale marcato (o anticorpo secondario) che si fissa in modo specifico al sistema primo anticorpo monoclonale- antigene. Il marcatore è molto spesso la perossidasi di rafano, ma vengono anche usate la fosfatasi alcalina e l'ureasi. Ora si procede con il lavaggio che porta via gli anticorpi marcati non legati. 
Nei nostri pozzetti, ora, aggiungiamo un substrato incolore che viri di colore per opera dell'enzima marcatore. Questo ci permette di vedere il nostro complesso ad occhio nudo oppure al microscopio ottico o con lo spettrofotometro.

E' logico che se il primo anticorpo non ha legato l'antigene quest'ultimo sarà stato eliminato con il primo lavaggio. Di conseguenza il secondo anticorpo coniugato con l'enzima non avrà nulla su cui legarsi e verrà eliminato con il secondo lavaggio, con il risultato che una volta aggiunto anche il substrato incolore, la miscela rimarra incolore.

Metodo Indiretto

Nel metodo indiretto si valuta la presenza dell'anticorpo contro un antigene all'interno del siero del nostro campione. Anche questo metodo può venir schematizzato in tre fasi.
1) Si procede con il fissare il campione sul PVC o su nitrato di cellulosa.
2) Si inserisce, poi, la soluzione di anticorpi monoclonali  noti per reagire contro il campione contenente l'antigene da identificare. Si lava abbondantemente per eliminare gli anticorpi non legati.
3) Anche nella terza fase del metodo, come nel metodo diretto, si inserisce un anticorpo marcato con un enzima (perossidasi, ureasi o fosfatasi alcalina).
Ora possiamo aggiungere il liquido incolore che per opera dell'enzima virerà di colore. Se il complesso non si è formato, per mancanza del legame tra antigene e anticorpo, allora i pozzetti rimarranno incolori.

venerdì 15 aprile 2011

Apicomplexa

Il Phylum Apicomplexa comprende circa 4600 specie di protozoi tutti quanti parassiti sia esocellulari che endocellulari dell'uomo, degli animali domestici e dei pesci.
Non hanno ciglia, flagelli o pseudopodi e vivono dentro o tra le cellule dei loro ospiti veterbrati o invertebrati. Questi protozoi hanno stadi simili a spore nei loro cicli vitali. Da qui deriva il nome con cui in passato venivano chiamati Sporozoa
Questi Protozoi sono chiamati oggi Apicomplexa per la presenza di un complesso apicale che è un complesso di organelli filamentosi, tubulari, disposto ad anello nell'estremità apicale che è visibile solo col microscopio elettronico.
Essendo tutti quanti dei parassiti necessitano di una struttura che permetta loro di penetrare nella cellula in cui dovranno svolgere il loro ciclo vitale senza però lederla.
Tale struttura è il Complesso Apicale costitutito da un conoide che permette la penetrazione nella cellula ospite. Il conoide è una struttura rigida costituita da microtubuli avvolti a spirale; sono presenti 2 anelli apicali: posteriore e anteriore che gli danno la forma tronco-conica.Internamente esistono dei tubuli che terminano in piccole vescicole le Rhoptrie (il loro numero viene usato come carattere tassonomico) che confluiscono nell'apertura del conoide. Infatti le rhotrie contengono al loro interno degli enzimi litici che aiutano meccanicamnete la penetrazione nella cellula da parassitare.
Ma prima della penetrazione il parassita deve riconosce la cellula giusta da parassitare, questo poi si avvicina e infine si oseerva ala penetrazione. Il meccanismo della penetrazione è simile ad una fagocitosi solo che in questo caso c'è una scelta del parassita verso la cellula da parassitare. Una volta dentro, il protozoo forma il vacuolo parassitario che avendo la stessa costituzione di un vacuolo digestivo, il protozoo al suo interno è difeso da ogni attacco da parte della cellula. Questo vacuolo è solo una struttura iniziale; infatti, la sua parete verrà distrutta per consentire al parassita di muoversi liberamente dentro la cellula parasitata e per potersi nutrire, accrescersi e riprodursi attraverso il proprio ciclo vitale.
Gli Apicomplexa sono accomunati anche dal fatto che il loro ciclo vitale si compone di una fase asessuale e una sessuale. Questo ciclo si divide in 3 fasi.
Una prima Fase Infettante. In questa fase il protozoo (nella forma di sporocista) è detto Sporozoite. Come visto prima, il protozoo una volta penetrato nella cellula bersaglio, fuoriesce dal vacuolo parassitario e si nutre per accrescersi in maniera diversa a seconda di dove penetra; diventa, ora, Trofozoite (cambia solo il nome ma la sua struttura è uguale a quella adulta).
Ha il corpo suddiviso in setti: la parte apicale viene detta epimerite: ha forma ad anello costituito da uncini, ventose o comunque organelli che permettono al protozoo di stare attaccato all'organo che viene parassitato. Poi c'è il protomerite, e infine il deutomerite che è la parte che contiene il nucleo.
Dopo essersi nutrito il Trofozoite dà orgine alla seconda fase, la Fase Schizonte nella quale si riproduce asessualmente per scissione multipla (Schizogamia) dando origine a individui detti Merozoiti (il numero dipende dal genere e dalla specie). Ognuno dei quali può dare inizio a molti altri cicli di divisioni schizogoniche.
Ogni merozoite è dotato del Complesso Apicale. In seguito i merozoiti fuoriescono dalla cellula nella quale si sono introdotti e liberi penetrano attivamente grazie al complesso apicale in nuove cellule, propagando l'infezione.
Ad un certo punto questi merozoiti evolveranno in cellule gametiche ed ha così inizio la terza fase, nota come Fase Gamogonica. Si tratta della fase sessuata del ciclo in cui si avrà la produzione di microgamenti flagellati (che sono la forma sessuata maschile). Di seguito, i microgameti andranno a fecondare i macrogamenti con la formazione di una cellula zigotica mobile. Lo zigote così formato, va in meiosi e diviene diploide (2n). Lo zigote 2n si incista, cioè si ricopre di una parete (che in alcuni casi è doppia) dando origine alla forma a oocisti. Poi per divisione mitotica si formano diverse sporocisti. In seguito, all'interno della sporocisti si ha per divisioni mitotiche la formazione di sporozoiti (il numero degli sporozoiti all'interno della oocisti sono caratteristici delle diverse specie) .
Questa fase sporogonica avviene all'esterno, mentre la fase schizogonica e gamogonica sono localizzate all'interno dell'ospite.
Questo appena descritto era il ciclo generale di un coccidia. Ma esistono specie in cui non si ha la formazione di spore (come nel Piroplasmea) e organismi (come il Plasmodium) in cui pur essendo un cocide la sporogonia avviene all'interno dell'ospite invertebrato, l'Anopheles.
Il Phylum Apicomplexa si divide in due classi: Sporozoa e Gregarina.

giovedì 14 aprile 2011

Leishmania

Il genere Leishmania comprende tre specie (L. infantum donovani; L. tropica; L. chagasi, L. braziliensis) morfologicamente simili tra di loro, ma differenti per caratteristiche colturali e sierologiche, per la malattia provocata negli ospiti, per la distribuzione geografica e per i vettori.
Solo le prime due specie sono presenti in Italia.
Le Leishmania sono dei parassiti protozoari intracellulari dei macrofagi e delle cellule dendritiche del cane e dell'uomo e di numerosi animali selvatici. Le leshamie sono causa di zoonosi, nell'uomo danno una forma viscerale nota come "kala-azar".
Il vettore della leishmaniosi è il Phlebotomus papatasi comunemente noto come flebotomo o pappatacio, un dittero del genere Phlebotomus. Nel Nuovo Mondo, invece, il vettore appartiene al genere Lutzomyia. 
Phlebotomus papatasi
Una volta all'interno del mammifero i protozoi si moltiplicano dentro le cellule della linea monocita/macrofagica. Una volta che avviene la rottura delle cellule gli amastigoti liberati invadono altri macrofagi. Dentro il macrofago, questi protozoi appaiono  come organismi rotondeggianti od ovoidali con il cinetoplasto a forma di bastoncello situato a fianco del nucleo. La leishmania intracellulare, misura dai 2 ai 5 micrometri e possiede un abbozzo di flagello che non si estende oltre il margine cellulare. Questa forma amastigote viene ingerita dal flebotomo durante il pasto di sangue. Nell'intestino del dittero il protozoo si trasforma in promastigote caratterizzato dalla presenza di un lungo flagello libero che fuoriesce dall'estremità anteriore del parassita. Le dimensioni di questa forma può raggiungere anche i 15 micrometri. Questi si dividono ripetutamente e poi grazie al loro flagello si muovono in senso anteriore e raggiungono la faringe del flebotomo e poi giù nella proboscide. Qui i promastigoti attendono fino al nuovo pasto dell'insetto per passare nel circolo sanguigno dell'ospite vertebrato. I promastigoti , una volta  nel circolo isanguigno del  vertebrato, innescano una risposta da parte dei macrofagi e dei monociti e vengono da essi fagocitati. Questa adesione viene facilitata da diverse molecole che si trovano sulla superficie del promastigote come il lipofosfoglicano (LPG) e la glicoproteina GP63 e dall'interazione fra il parassita e i recettori specifici sulla superficie del macrofago. Una volta fagocitato il promastigote si trasforma in amastigote. Quest'ultimi si dividono per scissione binaria all'interno del vacuolo parassitoforo finchè non raggiungono un numero tale da portare a rottura il macrofago, liberandoli nel circolo sanguigno.

Trichomonadidae: Flagellati Intestinali e delle Vie Genitali

I trichomonadidi sono flagellati a forma di pera caratterizzati dall'estremità anteriore arrotondata e da quella posteriore appuntita. Presentano un singolo nucleo posto in posizione anteriore, un blefaroplasto posto ancor più anteriormente da cui si dipartono da 3 a 5 flagelliliberi anteriori ed uno ripiegato posteriormente, delimitante una membrana ondulante e che si continua spesso con una porzione libera. Tipica di questi protozoi è un bastoncino , o asse, che attraversa tutta la cellula trasversalmente per poi sporgere nella parte posteriore del corpo ed è nota come assostile. Tuti i membri si moltiplicano per scissione binaria longitudinale.


Trichomonas vaginalis

E' un flagellato comune e cosmopolita, molto diffuso, proprio della specie umana. Si trasmette per contatto venereo localizzandosi in vagina o nella prostata ove provoca flogosi, più evidenti nella femmina. Da questo protozoo deriva il nome del genere, coniato da Donnè, che evidenziò per primo questo protozoo nelle secrezioni vaginali di una donna infetta (Donnè, 1836).

Genere : Tritrichomonas

Vi appartengono specie con 3 flagelli liberi anteriori. L'unica specie patogena è il T. foetus. Gli ospiti di predilizione sono i bovini. Nel toro i protozoi vivono nella cavità prepuziale e più raramente nei testicoli, epididimo, vescicole seminalei; nella vacca nella vagina e nell'utero.
Presentano un ruolo importante in quanto possono arrecare dei danni negli allevamenti. in quanto causa no aborti precoci al 2°-3° mese di gravidanza. La malattia è nota come trichomoniasi o aborto precoce.

Trypanosoma

Il genere Trypanosoma comprende diverse specie localizzate principalmente nel continente africano. Tre di queste specie sono patogene per l'uomo e sono il Trypanosoma brucei gambiensis, il Trypanosoma brucei rhodensiens che sono gli agenti eziologici della Malattia del Sonno e il Trypanosoma cruzi che è l'agente eziologico della Malattia di Chagas.
Trypanosoma nel sangue.
Essendo protozoi parassiti usano degli ospiti, per compiere il loro ciclo vitale. Nel genere trypanosoma gli ospiti sono due uno  vertebrato ed uno invertebrato, quest'ultimo funge da agente vettore.
Al microscopio i tripanosomi appaiono con un corpo fusiforme appuntito nella parte anteriore con citoplasma granuloso in cui si possono vedere due masse cromatiche: il nucleo, in genere in posizione centrale e di dimensione maggiore, e il cinetoplasto che è posto all'estremità posteriore del corpo (nell'immagine qui a fianco i due organelli appaiono colorati in scuro). Dal cinetoplasto si diparte un flagello che corre lungo tutto il corpo.
Questa è la forma tipica dei Tripanosomi quando sono circolanti nel sangue. Ma quando si insinuano dentro gli organi possono assumere anche altre forme che sono tipiche delle Leishmanie.
Il ciclo vitale si compie in due ospiti uno vertebrato e l'altro invertebrato. Nell'ospite vertebrato vivono nel sangue nella loro forma tipica.e dove si moltiplicano per scissione binaria longitudinale.
Gli insetti ematofagi, gli ospiti invertebrati dei tripanosomi, si infettano ingerendo il sangue di mammiferi parassitati. Questi parassiti compiono sicuramente un ciclo, all'interno dell'ospite invertebrato, come dimostra il fatto che l'invertebrato che ha succhiato sangue infetto non è subito infettante, ma solo dopo un certo numero di giorni. I tripanosomi dopo aver invaso l'apparato digestivo dell'ospite invertebrato prendono spesso forma di leptomas.
Nell'insetto i Tripanosomi seguono due modi differenti di sviluppo:
a) il primo (noto come "anterior station development" è tipico di T. brucei gambiensis e T. brucei rhodosiense. Esso si verifica quando il tripanosoma ingeriti da una glossina (mosca tse-tse) si moltipilica nell'intestino medio, raggiungono poi il proventricolo e di qui si accumulano nelle parti della bocca o nelle ghiandole salivari dell'insetto. Solo in questo momento i tripanosomi sono infettanti per i Mammiferi.
b) il secondo modo (noto come " posterior station development" si verifica quando i Tripanosomi ingeriti col sangue dagli ematofagi si moltiplicano nell'intestino, ma daui si spostano posteriormente nell'ampolla rettale, ove continuano a svilupparsi diventando infettanti per i Mammiferi. A questo punto l'insetto succhiando il sangue di un mammifero contamina la ferita con le proprie feci e da qui i tripanosomi penetrano nel nuovo ospite. Appartengono a questo gruppo il T. cruzi, il T. theileri e il T. rangeli.

Trypanosoma equiperdum

é l'unico tripanosoma presente in Europa (regioni meridionali, Italia compresa). Gli ospiti vertebrati di questo protozoo sono il cavallo e l'asino. I parassiti si localizzano inizialmente negli organi genitali esterni.
La trasmissione avviene principalmente per contatto diretto attraverso il coito. Eccezionalmente il contagio può avvenire tramite pungitori od il latte materno. Dal modo di trasmissione deriva anche il suo nome di morbo coitale maligno, o malattia venerea del cavallo.
La mortalità è elevata dal 50 al 70 %. La moltiplicazione avviene inizialmente negli organi genitali e successivamente nel sangue. Il parassita produce delle tossine endotelio- e neurotossiche.

Trypanosoma Brucei gambiensis e T. brucei rhodosense

Questi due tripanosomi, responsabili della Malattia del Sonno africano, sono indistinguibili morfologicamente sia nell'uomo che nell'insetto. Differiscono tra loro solo per la diversa distribuzione geografica, per le specie di glossine (mosca tze-tze) che li trasmettono e per i sintomi che causano nell'uomo. Tutto ciò fa pensare che i due tripanosomi non siano in realtà due specie distinte ma due razze biologiche che si sono differenziate da un'unica specie.
Il Tripanosoma Brucei gambiensis si ritrova nell'Angola centrale, nel Congo, in Kenya e nell'Uganda. Il suo vettore è la Glossina palpalis.
Il ciclo inizia con il morso di una mosca tze-tze infetta che punge un uomo sano. Per il Trypanosoma rhodesiense questa operazione viene compiuta dalla Glossina morsitans.
Questi insetti insieme alla loro saliva inoculano anche numerosissimi Tripanosomi nella forma di tripomastigote.
I tripanosomi nella fase iniziale si trovano attivamente nel sangue. Questo periodo viene detto ematico, caratterizzato da accessi febbrili preceduti da brividi e intervallati da alcuni giorni di apiressia (cioè mancanza di febbre). L'accesso febbrile è dovuto alla lisi contemporanea (crisi tripanolitica) di nuemrosi protozoi dovuta all'azione degli anticorpi.
Alla fase ematica segue la segue una seconda fase caratterizzata dall'invasione dei gangli linfatici.Se l'infezione è massiva si osserva all'invasione del liquido cefalo-rachidiano con conseguenti lesioni delle meningi encefaliche, creando i tipici sintomi nervosi della malattia del sonno (parestesia, apatia, astenia muscolare, cefalea, sonnolenza e coma terminale.
La malattia ha andamento cronico della durata di qualche anno e in assenza di terapia termina con la morte.
Quando l'infezione coinvolge il circolo sanguigno i tripanosomi si ritrovano nel flusso sanguigno, così se una mosca punge il malato, questa insieme al sangue assume anche i Tripanosomi sotto forma di tripomastigote i quali si insediano nelle ghiandole salivari dell'insetto ematofago.
Da qui migrano alle cellule della parete dello stomaco. E' in questa sede che il tripanosoma si trasforma in epimastigote per fuoriuscita del flagello a metà del corpo del protozoo. L'epimastigote si riproduce per scissione binaria più volte, in seguito questi si portano alla faringe e da qui alle ghiandole salivari dove riassumono la forma di tripomastigote. Da qui questi parassiti verrano trasmessi all'uomo.
La diagnosi può essere fatta osservando strisci di sangue dove si vede che queste forme stanno sempre all'esterno dei globuli rossi; sono quindi esocellulari.
Il Trypanosoma Brucei rhodensiense è diffuso in un area più ristretta (Uganda, Tanganica, Mozambico, Rhodesia) e il suo vettore è la Glossina morsitans che preferisce ambienti più secchi.Si è isolato questo tripanosoma anche in antilopi ed altri animali selvatici che insieme all'uomo rappresenterebbero un importante bacino di infezione.
L'infezione da T. rhodensiense ha generalmente un andamento più acuto rispetto a quella causata dal gambiensis, tanto che molto spesso la morte sopraggiunge per setticemia già nel primo periodo ematico senza che la sintomatologia nervosa abbia il tempo di manifestarsi.

Trypanooma cruzi

Il trypanosoma cruzi determina la malattia di Chagas, diffusa in tutta l'America del Sud e nella California. Questa malattia colpisce soprattutto i bambini. Questo tripanosoma compie parte dle suo ciclo vitale in alcuni insetti del genere Triatoma e Rodnius specialmente nella Triatoma infestans che è una cimice (un emittero ematofago). In questi insetti i tripanosomi evolvono nell'intestino medio sottoforma di leishmanie e crithidia, solo in un secondo tempo compaiono nell'0intestino posteriore grandi quantità di tripanosomi che vengono emessi con le feci e che sono capaci di attraversare i tegumenti con ferite e le mucose con cui vengono a contatto.
La cimice si porta sull'uomo durante la notte per succhiargli il sangue, questa però defeca anche in prossimità della puntura , la quale è pruriginosa. Quindi l'uomo si grata e le feci entrano nella ferita da puntura. Il morfotipo trasmesso è tripomastigote che infetta prima le cellule del reticolo endoteliale (cute) dove diventa amastigote. Qui si riproduce per scissione binaria, poi diventano esocellulari e si trasformano in tripomastigoteportandosi attraverso il sangue alle fibre muscolari striate e del cuore diventando endocellulari amastigote, al cui interno si moltiplicano moltissimo formando i cosiddetti nidi cioè ammassi di amastigote che sono lesivi per i muscoli e il cuore. Alla fine la cellula scoppia liberando forme epimastigote che anzichè invadere le cellule muscolari invadono il circolo sanguigno e si mutano in tripomastigote. Giungono così tramite il sangue periferico sottocute e le cimici sane pungono l'uomo infetto assumendo oltre al sangue anche il Trypanosoma.

mercoledì 13 aprile 2011

Kinetoplastida

Bodo saltans, un kinetoplastida a vita libera.
I protozoi appartenenti a questo ordine sono tutti quanti parassiti. Vengono così chiamati perchè presentano all'interno della loro cellula il Cinetoplasto che è una massa di DNA situata in un mitocondrio allungato vicino al blefaroblasto (da blefaros = palpebra), cioè quella parte del flagello infissa nel citoplasma.
Questa struttura è importante per la divisione cellulare e per la classificazione dei morfotipi che si basano sulla zona d'uscita del flagello che è legata alla posizione del cinetoplasto.
Esistono 4 diversi morfotipi:
1) Amastigote: con corpo rotondenggiante dotato di un nucleo e di un cinetoplasto senza flagello esterno (tipico del Tripanosoma e della Leshmania).
Trypanosoma
2) Promastigote: corpo allungato. Il flagello si origina vicino ad un cinetoplasto posto davanti al nucleo ed emerge all'estremità anteriore (forma tipica delle Leshmanie).
3) Epimastigote: hanno entrambe il corpo allungato. Solo che il flagello origina accanto ad un cinetoplasto paranucleare.
4) Tripomastigote. Origina accanto ad un cinetoplasto posteriore al nucleo. Sia in tripanosoma che in leshmania il flagello emerge a lato del corpo formando una membrana ondulante, tipico del tripanosoma.